La tendenza sovrumanista è un qualcosa di assolutamente nuovo, è una filosofia che trova nei poli magnetici Wagner e Nietzsche i suoi fondatori e mentori irrinunciabili. Essa si prolunga ancora oggi, è nella sua natura il non esaurirsi mai, poiché essa è portatrice della rivoluzione perenne di cui già Gentile ebbe modo di parlare. Insomma siamo davanti a un fenomeno mutevole e magmatico, in fase mitica e fortemente dinamico che comanda ai suoi seguaci di volgersi con coraggio verso l’avvenire e le sue sfide. Ho detto coraggio, non fiducia, poiché – è bene chiarirlo subito, vista la tematica di cui si parlerà – il sovrumanismo si lascia alle spalle gli illuminati principi cari all’illuminismo e al positivismo, secondo cui il tempo procede inevitabilmente verso il meglio, verso il paradiso in terra. No, il sovrumanismo è una critica radicale e ferma alla concezione illuminista dell’uomo e del mondo, e sa tenere sempre vivo e presente il legame con la tradizione indoeuropea, vivificandola e attualizzandola, rendendola sempre giovane e facendosi coraggiosamente carico dei suoi insegnamenti. «Il mito [indoeuropeo della fondazione] contiene un insegnamento implicito, fondato su un giudizio di valore specificamente indoeuropeo, che vuole che l’autenticità dell’uomo risieda nella sua capacità di “prendersi in mano”, di “parlare” e di “agire” invece di “essere parlato” ed “essere agito”. A partire dall’istante in cui l’uomo diventa cosciente di questa attitudine, cioè a partire dall’istante in cui riflette sul suo potere di autodomesticazione, una coscienza superiore sorge, e tende immediatamente a realizzarsi come tale nel fatto sociale. All’uomo-soggetto generico (e spontaneo) dell’azione magica esercitata su se stesso s’aggiunge ormai l’uomo-soggetto specifico (e cosciente) dell’azione esercitata sull’altro uomo» (pag. 66). Ecco dunque che nelle parole di Giorgio Locchi citate da Vaj emerge in tutta chiarezza quale sia il punto di partenza ineludibile per chi faccia propria una visione del mondo sovrumanista: il mito di fondazione indoeuropeo. È quindi evidente che il testo di cui qui parlo, Biopolitica, il nuovo paradigma (SEB, Milano 2005), sfugge ad ogni frettolosa accusa di “scientismo”, “positivismo” o qualsiasi altra classificazione squalificante per chi invece faccia propria risolutamente la battaglia identitaria e di risveglio dei popoli europei e, di conseguenza, della coscienza di tutti gli altri popoli.
Il mito indoeuropeo insegna che l’uomo, dal momento in cui riceve da Prometeo il fuoco, non si è mai fermato nella sua continua addomesticazione del mondo circostante, nel continuo tentativo di controllare la natura e di sfruttare a suo vantaggio le tecniche di volta in volta resesi disponibili. La magia in questo senso è la capacità di utilizzare efficacemente degli strumenti per conseguire degli scopi e degli effetti particolari. Se per il “primo uomo”, l’uomo dei culti sciamanici, magia era la capacità di controllare gli spiriti e renderli propizi in determinate azioni, per l’uomo postmoderno, cui si riferisce Vaj, magia è la capacità, certo appartenente soltanto ad una èlite, di dominare la tecnica e i suoi immensi sviluppi (informatica, bio-ingegneria, robotica ecc.) per i propri scopi, spiritualizzandola attraverso la sua volontà e decisione assolute, in modo analogo a quello indicato da Jünger nel suo testo fondamentale L’Operaio. «Avendo appreso [con il “primo uomo”] ciò che fa “muovere” se stesso, l’uomo cerca di “far muovere” gli animali e le piante secondo i suoi desideri e i suoi bisogni. Per ciò che concerne gli animali sociali, si è proposto di assumere nei loro riguardi un ruolo direttivo, sostituendosi al capobranco. Nello stesso modo, colui che ha attinto ad un livello di coscienza superiore, grazie ad una comprensione corretta della ‘”relazione magica” si pone in quanto aristocrazia nei confronti della società, ed afferma la propria sovranità. La religione costituisce in seguito il sistema ideologico che permetterà di “legare insieme'” la società, e di sottomettere la massa ad una data influenza. […] Parallelamente alla “domesticazione del mondo vivente” da parte dell’uomo, preso nel suo insieme, si opera la “domesticazione” della massa da parte dell’élite, dell’uomo magico da parte dell’uomo religioso. […] Questo “passaggio” nel quale consiste la rivoluzione neolitica, e che rappresenta il periodo oggi in via di conclusione, riveste un’importanza fondamentale. Non è troppo difficile riconoscervi ciò che la Bibbia chiama “espulsione dal paradiso terrestre”, Karl Marx “la fine della società comunista primitiva”, Sigmund Freud “l’uccisione del padre” e Lévi-Strauss infine “la separazione tra Natura e Cultura”» (G.Locchi, pag.31).
Il testo di Stefano Vaj preso in esame ha conosciuto, ad oggi, ben 4 versioni (!): la prima apparsa sulla rivista L’Uomo Libero, la seconda pubblicata dalla SEB (l’oggetto di questa recensione), mentre la quarta versione – evoluzione della terza – può essere letta, scaricata, linkata sulla Rete all’indirizzo www.biopolitica.it ed è stata inserita tra i testi consigliati dell’Associazione Italiana Transumanisti (www.transumanisti.it). L’ultima versione è arricchita di numerose aggiunte di links e citazioni di testi presenti nella Rete nonché da una buona quantità di citazioni tratte dagli scritti di Friedrich Nietzsche.
Come ricorda Alessandra Colla nella sua Nota, la parola paradigma deriva dal greco parádeigma, che significa modello, nel senso più ampio del temine. Ma paradigma vuol dire anche “esempio”, nel senso di “traccia da seguire”. Nelle scienze il paradigma è la norma da seguire, al di fuori della quale sta l’anomalo e il non accetto. Ebbene, la scienza rivoluzionaria, quella cioè che provoca una rottura con ciò che era, è, per definizione, una scienza che crea un nuovo paradigma; così come un’attitudine rivoluzionaria crea una nuova origine. La rottura che avviene in questo modo rompe con la morale valida sino a quel momento, coi canoni valutativi e con le “visioni del mondo”, fa piazza pulita e crea, con atto sovrano e pienamente umano, post-umano, una nuova norma.
Il volume è scritto all’insegna dei celebri versi di Hölderlin: «Dove il pericolo è più grande, là nasce ciò che salva», spesso citati e altrettanto spesso fraintesi, sminuiti, o utilizzati solamente per compiacimento personale. In realtà quello che questi versi insegnano, letti in un’ottica heideggeriana e sovrumanista è che le tecnologie postmoderne, che turbano i sonni di molti difensori dell’attuale stato di cose, non possono essere rifiutate né tanto meno vietate, ma solamente controllate dall’uomo, così che possano divenire strumenti stretti nel suo pugno e nient’affatto indipendenti dalla sua volontà e dal suo controllo. È dell’insegnamento prometeico che abbiamo oggi più che mai bisogno: «Il senso originario del mito di Prometeo era in effetti ben diverso [dalla lotta dell’uomo greco contro Dio], dato che la grecità pre-cristiana si identificava con i propri dèi. Il significato di Prometeo ed in generale dei Titani si è d’altronde tipicamente ribaltato con lo Sturm und Drang e il romanticismo, con cui questi vengono viceversa a simboleggiare la rivolta eroica, tragica e grandiosa (il “titanismo” entrato anche nel linguaggio comune) contro un ordine costituito alieno, mediocre e soffocante.
E’ d’altronde normale che il mito possa parlare in termini diversi al cuore degli uomini, e farsi materiale di richiami diversamente articolati. Anche certa sinistra culturale ha tentato di impadronirsi dei mito di Prometeo (come antesignano del “proletariato che scuote le sue catene”), ma già all’epoca di Gabriele D’Annunzio o Stefan George il “titanismo” viene per lo più considerato come un mitema tipicamente sovrumanista. Quanto poi allo snobistico “antititanismo” di Evola (cfr. L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger, ult. ed. Edizioni Mediterranee, Roma 1998) o dei più recenti atteggiamenti di Alain de Benoist (L’Operaio tra gli Dei e i Titani, Asefi Terziaria, Roma 2000, traduzione di cui è anche disponibile una versione integrale sul Web), quando non rappresenta semplicemente un’effettiva deriva “di destra” dei due autori, lo stesso deriva d’altronde da una incomprensione intellettualistica dell’ovvio significato “politico”, tanto simmetrico quanto invertito, che nel contesto indoeuropeo ed in quello moderno può avere l’idea della oscura rivolta ed eterno ritorno di un substrato umano e religioso preesistente rispetto alla visione del mondo dominante ed al suo “ordine cosmico”. Non c’è bisogno di essere grandi mitografi per capire gli dèi di ieri (e magari di domani) ben possono trovarsi a giocare la parte dei titani di oggi, e che la condanna o l’esaltazione di Prometeo rappresentano in realtà nei due contesti il richiamo ad un identico sentire» (pag. 271).
Biopolitica è un testo di ampio respiro che affronta in un’ottica assolutamente anticonformista e rivoluzionaria temi scottanti quali la procreazione assistita, clonazione, eugenetica, antropologia, demografia, transumanismo, OGM e minaccia disgenica, il tutto, come già detto, secondo un’ottica sovrumanista e un’attitudine volontaristica, che non rifiuta e non rimuove freudianamente quel che incute timore, ma anzi, lo guarda fisso negli occhi con spavalderia e, con aria di sfida, stringe tra le mani i problemi del futuro, ben sapendo che quel che così si affronta altro non è che il nostro destino, che molti millenni fa venne segnato da una tensione, da una sensibilità che oggi si vuol far risorgere rinnovata e rinvigorita. Avviarsi alla lettura di questo testo pone dei problemi, sebbene l’autore dedichi i primi capitoli a riassumere succintamente la prospettiva con cui vengono affrontate le questioni trattate. Benché sia molto diffuso il pensiero nietzscheano e una certa etica volontaristica, molte tematiche contenute in Biopolitica e nel sito di cui si diceva, sono tuttora argomenti tabù persino tra coloro che invece, vuoi per eredità politica, vuoi per influenze dottrinarie e filosofiche (appunto), dovrebbero invece sapersi porre davanti a tali problemi oramai ineludibili con animo creatore, secondo una mentalità archeofuturista e postmoderna evitando di cadere nella trappola della logica moderna, democratica, umanista e globalista che si ritrae «smarrita rispetto alle prospettive che si aprono al “terzo uomo” – paventando essa stessa l’applicazione meccanica dell’impersonalità del Mercato, o al meglio di un microedonismo individualista, al nuovo mondo –, e finge che il rischio estremo cui il terzo uomo è confrontato non esista («andiamo avanti così, preoccupiamoci dell’andamento in Borsa della società e speriamo che in un modo o nell’altro tutto si aggiusti»); oppure si illude di poterlo evitare con regolamentazioni puramente repressive ed astensive («tagliamo i fondi alle ricerche, vietiamo le applicazioni, e il problema se ne andrà»). Ma in nessuno dei due casi sa realmente cosa rispondere alle domande che tale logica stessa si pone» (pag.58).
Opporsi al Progetto Genoma non ha oramai molto senso, ha invece maggiore importanza raggiungere le scoperte nel campo della genetica ed eventualmente superarle e guidarle, in modo da sfruttare tali innovazioni per i propri scopi che, segnatamente, per Stefano Vaj riguardano principalmente la demografia dell’Europa e la possibilità di perfezionarne la popolazione, così da eliminare dannose tare genetiche che, anche se non manifeste, se lasciate nel corredo genetico verranno comunque trasmesse alla discendenza. Attraverso gli studi sui geni e grazie a pratiche geniche ed eugeniche sarà dunque possibile prevenire ed eliminare malattie di origine genetica perfezionando e rafforzando la popolazione della comunità di appartenenza.
Questo naturalmente è solo un esempio dei molti argomenti trattati nell’opera in esame; un capitolo invece si dedica agli OGM ricordando agli oppositori a priori di questo tipo di cibi che, ad esempio, «il granoturco, o mais, è stato selezionato ed incrociato per migliaia di anni, prima che dagli agronomi e dai genetisti, dagli indiani Maya; ancora prima della scoperta dell’America, le varietà coltivate erano già così lontane dall’avere le caratteristiche naturalmente necessarie alla riproduzione da non potersi affatto perpetuare senza un intervento umano. Oggi, se un cataclisma provocasse l’estinzione della specie umana, contemporaneamente scomparirebbe dalla faccia della terra anche il mais; ne rimarrebbe probabilmente una sola specie, la teosinta, inadatta alla coltivazione ed oggi considerata un’erbaccia, ma che a quanto è stato ipotizzato sarebbe la lontana antenata del mais, o almeno una discendente selvatica di un antenato del mais. Cos’ha di “naturale” il mais con cui da secoli viene preparata la polenta nelle valli alpine e nella bergamasca, e da millenni le pappe o le pannocchie abbrustolite delle popolazioni andine?» (pag.171).
E prosegue, più oltre, così: «Perciò, per chi fa dell’Europa la propria comunità di riferimento, il problema non può certo essere risolto limitandosi a tentare velleitariamente di ritardare (del resto, solo per i prodotti alimentari) la messa in commercio nell’Unione Europea dei derivati di organismi geneticamente modificati altrui, o ritardare la produzione locale degli stessi, ma solo tentando di raggiungere un livello tecnologico autonomo in tale settore che sia equivalente e superiore a quello americano, cosa indispensabile non solo con riguardo ad una “concorrenzialità” nell’ambito di un sistema globalizzato (che si può ritenere comunque da superare ed abbattere), ma in termini di indipendenza, sovranità, e addirittura in termini di protezione, per quanto possibile, dagli esiti potenzialmente catastrofici del dispiegarsi puramente mercantilistico delle biotecnologie. Solo in tale contesto, che a questo stadio dovrebbe necessariamente prevedere un’incentivazione ed agevolazione della ricerca europea, la deliberata creazione di cartelli pubblici o sotto stretto controllo pubblico, ed accordi diretti con il Terzo Mondo per lo sfruttamento congiunto ed esclusivo del pool genetico delle rispettive ecosfere, può avere senso un protezionismo semi-autarchico in contrasto, ad esempio, alla diffusione di metodi di agricoltura integrata che sfuggano dal controllo politico ed economico della comunità di riferimento; o ancora può prendere significato l’adozione di politiche di licenza obbligatoria quanto a tecnologie e trovati in mani estere la cui disponibilità si riveli necessaria per l’economia nazionale/europea.
Il controllo delle tecnologie in questione appare cruciale anche al di fuori di una prospettiva “concorrenziale”, o quale garanzia di effettiva sovranità dei paesi coinvolti, e riveste significato in termini di tutela del territorio e della comunità di riferimento in una chiave che trascende del tutto i pur opportuni controlli e cautele in materia di organismi geneticamente modificati, o la capacità di “combattere il fuoco con il fuoco” in caso di sviluppi incontrollati e distruttivi di questi ultimi. In realtà, infatti, l’inquinamento genetico è un rischio presente da sempre, e con cui l’Europa fa purtroppo i conti da secoli, ben prima che la biotecnologia si affacciasse all’orizzonte» (pag.205).
Molti e di difficile soluzione sono i problemi che il “secolo biotech” (Rifkin) ci pone innanzi, ma non è chiudendo gli occhi al cospetto della tecnica che potremo essere signori del nostro destino, sempre che non si decida di distruggere computer, laboratori, banche dati, protesi, robot e quant’altro per tornare così a un paradiso in terra in cui non si dovrà più confrontarsi con l’insegnamento del mito di fondazione e coi problemi che esso pone, e che l’uomo indoeuropeo scelse allora di affrontare.
I timori riguardanti “mostri da laboratorio”, catastrofi ambientali, denatalità e quant’altro, sono legati anche agli sviluppi tecnologici, ma è altrettanto vero che la loro soluzione è legata a nuove scoperte tecnologiche derivanti dagli stessi. Quindi, «se la varietà e ricchezza della biosfera sono oggi minacciate, la loro conservazione futura non può che essere frutto di una scelta deliberata, politica, e del tutto artificiale, così come la conservazione nel patrimonio genetico delle specie vegetali ed animali, uomo compreso, di caratteristiche “ancestrali” e/o prive di un significato adattativo nelle concrete condizioni ambientali in essere, ma che è possibile scegliere di mantenere, per lungimiranza – in vista della sopravvivenza nel caso di un mutamento profondo di tali condizioni ambientali –, oppure per ragioni estetico-affettive e culturali. La raccolta, classificazione e protezione del selvatico e delle razze locali, per il relativo patrimonio genetico, è anzi una prospettiva moderna, o meglio post-moderna, che ben può porsi in contrasto con pratiche millenarie volte invece alla riduzione e specializzazione, specie delle varietà vegetali, a favore di quelle utili, e tra queste a quelle qualitativamente e quantitativamente preferibili per il contadino e i suoi padroni o clienti. In questo senso sembra problematico rappresentare l’agricoltura tradizionale, decantata in questo senso ad esempio da Giovanni Monastra, come “custode” di una varietà biologica che essa storicamente non ha mai fatto altro che ridimensionare e combattere» (pag. 172).
Tutto, domani come allora, dipenderà dalla volontà dell’uomo e dalla sua capacità di decidere cosa divenire.
Lascia un commento